Il Diritto alla vita e all'integrità fisica è uno dei diritti più importanti per il nostro ordinamento, sancito dalla stessa Costituzione della Repubblica Italiana e tuttora al centro di numerosi dibattiti per via di argomenti collegati ad esso estremamente delicati.
È un diritto tutelato sia dal Codice Civile – grazie al quale una persona vittima per esempio di una violenza ha la possibilità di chiedere un risarcimento danni – sia dal Codice Penale, che prevede severe punizioni per quanti si macchiano di reati come l'omicidio, le lesioni personali, ecc.
Il diritto alla vita viene definito nel mondo giuridico come:
L'integrità psicofisica riguarda la possibilità offerta ad ogni essere umano di godere del proprio corpo "interamente", ovvero di vivere una vita dignitosa in uno stato di salute ottimale, sia dal punto di vista fisico che psicologico.
Si tratta, quindi, di un diritto grazie al quale ci è possibile tutelare la nostra stessa salute.
Il diritto alla salute è sancito in primo luogo da due articoli considerati molto importanti dal punto di vista giuridico: l'articolo 32 della Costituzione della Repubblica Italiana e l'articolo 5 del Codice Civile.
In base all'articolo 32 della Costituzione, la Repubblica tutela la salute di ogni persona e garantisce anche cure gratuite a quanti versano in condizioni di difficoltà.
Il punto più importante e più discusso di questo articolo è il comma 2, all'interno del quale viene sottolineato come nessun individuo possa essere obbligato a sottoporsi a trattamenti sanitari (cure, terapie, interventi, ecc.) se non lo desidera, a meno che non si tratti di cose per legge obbligatorie.
Su questo principio si basa l'intero rapporto instaurato tra medico e paziente, un rapporto in cui il professionista è tenuto a rispettare precisi obblighi di legge. Un chirurgo, per esempio, deve obbligatoriamente informare il paziente sull'intervento che reputa opportuno effettuare per migliorarne le condizioni di salute, per cui è tenuto a presentargli un'informativa che riporti la descrizione del tipo di operazione prevista, le probabilità di successo, le conseguenze, gli eventuali danni gravi o meno gravi che potrebbero verificarsi, ecc. L'intervento potrà, poi, essere effettuato solo se il paziente informato darà il suo esplicito consenso.
In un solo caso un professionista può (ed anzi, deve) agire anche senza il permesso del paziente: quando si verifica uno stato di necessità, ovvero quando è richiesto il suo intervento immediato al fine di salvargli la vita (pensiamo, per esempio, a chi resta coinvolto in un grave incidente stradale).
Per la Costituzione, dunque, ciascuno di noi ha la libertà di decidere se sottoporsi o meno ad una cura.
Costituiscono un'eccezione a questa regola solo i cosiddetti trattamenti sanitari obbligatori ovvero quelli imposti dalla legge, tra i quali rientrano le vaccinazioni.
Gli atti di disposizione del corpo sono, invece, l'argomento principale di cui si occupa l'articolo 5 del Codice Civile. Si tratta in sostanza di ciò che ciascuno di noi può fare o non fare col proprio corpo.
In base a questo articolo, esiste in realtà una vera e propria "indisponibilità" del proprio organismo, nel senso che per legge non possiamo farne tutto ciò che vogliamo: sono infatti vietate le azioni che possono diminuire la nostra integrità fisica (provocare conseguenze negative per la nostra salute) nonché gli atti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume.
Per esempio, è vietato vendere i propri organi "doppi" (come un polmone) perché un'azione di questo tipo comporterebbe seri pericoli per la propria salute.
La legge prevede, però, delle eccezioni a questa indisponibilità dell'organismo in specifici casi: donazione di sangue e/o di midollo osseo, trapianto di reni tra esseri viventi (ad esempio un uomo in vita che dona un rene a suo figlio malato), donazione di parti di fegato sempre tra persone in vita, ecc. Queste operazioni sono lecite in quanto rette dal principio della solidarietà sociale, cioè compiute al fine di aiutare altre persone che versano in cattive condizioni di salute.
Il diritto alla vita e alla salute, come anticipato, ha dato vita a non poche discussioni (sia in ambito legale che nell'intera società in generale) riguardanti alcune questioni delicatissime strettamente collegate a questi argomenti.
Una delle tematiche più dibattute è quella sulla possibilità per una persona gravemente malata e con nessuna speranza di guarigione di scegliere fino a che punto farsi curare e quando, invece, interrompere ogni trattamento (quindi lasciarsi di fatto morire).
Secondo alcune teorie, dal momento che ogni essere umano ha il diritto di rifiutare un trattamento sanitario nonché di revocare un eventuale consenso precedentemente dato, qualunque intervento venga effettuato contro la sua volontà è da considerarsi illecito. In quest'ottica, dunque, se un malato in fase terminale decide di sottrarsi a cure devastanti, nessuno dovrebbe continuare a somministrargliele, per non violare i suoi diritti.
Nel nostro ordinamento, però, non c'è ancora un regolamento preciso che si concentri sulla questione dell'accanimento terapeutico (cure eccessive e considerate ormai inutili date a chi non ha probabilità di sopravvivere), né esiste una legge sul famoso testamento biologico, ovvero quel documento attraverso il qual ciascuno di noi può indicare anticipatamente la sua volontà di ricevere o non ricevere trattamenti sanitari nel caso in cui resti vittima di qualcosa di grave.
L'Assemblea del Consiglio Europeo ha invitato nel 2012 gli Stati membri dell'Unione ad adottare regolamenti specifici al riguardo, attraverso la risoluzione n.1859.
Con questo documento è stato comunque sottolineato come la Comunità sia ancora fermamente contraria al suicidio assistito (quello che si verifica quando una persona gravemente malata decide di togliersi la vita usufruendo dell'assistenza di un medico), all'eutanasia (il privare un malato terminale della sua vita dietro sua richiesta) ed a qualunque altra azione oppure omissione che possano portare alla morte di una persona.
Negli ultimi anni, per via di alcuni importanti episodi di cronaca (per esempio il caso di Piergiorgio Welby nel 2006), il dibattito su questi argomenti è stato ripreso più volte ed è tuttora aperto.